Il dollaro continua a perdere posizioni: tutto somiglia sempre più a una tendenza costante, non a un cedimento casuale. Il rating del credito degli Stati Uniti è stato abbassato, l'iniziativa fiscale di Trump è in stallo, la Fed è cauta mentre il vertice del G7 fornisce un ulteriore motivo di sfiducia globale. Mentre la Casa Bianca cerca di salvare la faccia nei negoziati commerciali, i mercati hanno già scommesso: il dollaro non è un bene in cui vale la pena rifugiarsi. Cerchiamo di capire perché la valuta statunitense sta perdendo terreno e cosa dicono i principali analisti al riguardo.
Il dollaro perde sostegno
La valuta statunitense continua a rotolare verso il basso, e ora non si tratta più di una fluttuazione dettata dalle notizie, ma dell'inizio di una pressione strutturale, che i mercati rilevano con crescente preoccupazione.
Gli ultimi due giorni sono stati una chiara conferma del fatto che la valuta statunitense sta perdendo le sue precedenti difese. L'indice del dollaro (DXY), che riflette la sua forza nei confronti di sei valute principali, nella giornata di martedì è sceso di un altro 0,4%, arrivando a 99,938.
Continua dunque il suo declino di 2 giorni, che nel complesso è stato dell'1,3%: è il ribasso più profondo dall'inizio di aprile. Rispetto ai massimi di gennaio il dollaro ha già perso il 10,6%, rendendo l'attuale trimestre uno dei più deboli degli ultimi anni.
Naturalmente, nel mercato delle valute tali movimenti non avvengono senza motivo. E nel caso del dollaro, ci sono più ragioni di quante ne vorremmo.
In primo luogo, un colpo alla fiducia sovrana. Venerdì scorso Moody's ha declassato il rating del credito americano, facendo riferimento all'aumento del deficit, alla mancanza di disciplina fiscale e alla cronica incapacità di Washington di negoziare.
Il mercato azionario ha reagito stoicamente a questa notizia, il mercato valutario no. Già lunedì il dollaro ha ricevuto il primo colpo, mentre martedì è iniziato il consolidamento della tendenza. La valuta si è indebolita in tutto lo spettro: rispetto allo yen dello 0,2%, al minimo di 144,095 sulle 2 settimane, rispetto al franco svizzero dello 0,6%, a 0,8264%, rispetto all'euro dello 0,3%, all'1,1291, e rispetto alla sterlina dello 0,1%, all'1,3405.
Il secondo motivo è l'impasse fiscale. Il presidente Trump non è riuscito a ottenere il sostegno del proprio partito al Congresso per la nuova legge fiscale. Nonostante gli incontri faccia a faccia con i repubblicani alla camera dei rappresentanti, l'amministrazione non ha convinto nemmeno gli alleati.
Questo ha fatto scattare l'allarme: se anche il fronte interno non può essere gestito, qual è la probabilità che la Casa Bianca mantenga il controllo dei suoi obblighi esterni?
A tale proposito, secondo le stime di esperti indipendenti, il disegno di legge nella sua forma attuale aumenterà il debito USA di 3-5 trilioni di dollari. Per i mercati valutari, che tradizionalmente reagiscono bruscamente ai rischi fiscali e di debito, questo non è altro che un nuovo argomento contro il dollaro.
In questo contesto, la Federal Reserve, invece di trasmettere determinazione e rigidità, ha scelto la cautela. I rappresentanti della Fed hanno iniziato a parlare dei rischi di stagflazione, della probabile debolezza del mercato del lavoro e della limitata capacità di manovra in condizioni di continua pressione sui prezzi.
Così il presidente della Fed di St. Louis Alberto Musalem ha sottolineato il possibile aumento della disoccupazione dovuto alla continua pressione inflazionistica. La sua collega Beth Hammack, della Fed di Cleveland, ha invece avvertito che la politica commerciale potrebbe portare a uno scenario di stagflazione.
Altri funzionari della Fed hanno parlato apertamente delle conseguenze della perdita del rating del credito e dell'instabilità del mercato. In altre parole, l'autorità, nella quale il mercato ancora sperava, è diventata una fonte di ulteriore angoscia.
Infine, è all'orizzonte un ulteriore fattore di pressione: i prossimi negoziati tra Stati Uniti e Giappone a margine della riunione del G7. Il Ministro delle Finanze giapponese Katsunobu Kato ha già affermato che i tassi di cambio dovrebbero rimanere stabili e che non dovrebbe essere tollerata un'eccessiva volatilità.
Ciò suggerisce chiaramente che Tokyo proteggerà lo yen dall'indebolimento, il che significa che il dollaro è atteso da un'altra restrizione al suo possibile rafforzamento. Dal momento che posizioni simili sono espresse da altri paesi asiatici, si ha la sensazione che la pressione monetaria coordinata sul dollaro cessi gradualmente di essere un'ipotesi e diventi uno scenario reale.
In tale contesto, gli analisti si esprimono con maggiore franchezza. Vassili Serebriakov di UBS afferma: "Di fondo c'è ancora la tendenza a vendere il dollaro. Non penso che il pregiudizio sia cambiato".
Goldman Sachs ricorda che gli Stati Uniti si trovano nella posizione più vulnerabile tra i paesi del G7, in termini di ritmo di crescita e inflazione. La valutazione di Goldman Sachs: "Ciò apre opportunità più ampie per un indebolimento del dollaro e per una curva dei titoli del tesoro USA più ripida". In altre parole, gli alti tassi di interesse non compensano più i rischi di debito e i rischi politici, così che il dollaro perde la sua capacità di attrarre investimenti.
La situazione attuale dimostra che il dollaro non è più percepito come un rifugio sicuro. Esso stesso è diventato un rischio. Del bene rifugio è rimasto solo il guscio: la stabilità che esso simboleggiava viene erosa giorno dopo giorno.
Il rating del credito non è salvo. La politica fiscale è in stallo. Il regolatore mostra incertezza. E gli alleati con cui l'America per decenni ha costruito la stabilità monetaria ora guardano con sospetto al dominio del dollaro.
Ecco perché la caduta dell'indice del dollaro dell'1,3% in due giorni non è solo statistica. È un sintomo di un cambiamento sistemico nella percezione della valuta statunitense. Sempre più investitori votano con i soldi – e votano contro il dollaro.
Il G7 come motivo di allarme: il dollaro attende cattive notizie
A prima vista, la riunione dei ministri delle Finanze del G7 in Canada è un altro rituale diplomatico: discussioni sulla stabilità, qualcosa sulla Cina, un paio di affermazioni sulla crescita e il tacito accordo di evitare discorsi duri.
Ma i mercati valutari guardano a questo incontro in modo diverso. Per loro è un indicatore importante: non di azioni, ma di intenzioni. Soprattutto tra segnali sempre più preoccupanti sul fatto che gli alleati degli USA si stanno preparando per discutere con Washington non solo delle tariffe e del commercio, ma anche della quota di responsabilità americana per le turbolenze valutarie globali.
La discussione sulle questioni valutarie è stata per ora solo delineata, ma il solo fatto che sia inclusa nell'agenda diplomatica è percepito come l'inizio della fine di quella calma che il dollaro ha recentemente garantito.
Finora non sono seguite decisioni ufficiali né discussioni dirette sulle valute, ma le formulazioni e i segnali diplomatici parlano da sé.
Occorre ricordare che il Ministro delle Finanze giapponese ha annunciato in anticipo che intende discutere il tema dei tassi di cambio con il Ministro delle Finanze USA Scott Bessent. Katsunobu Kato ha sottolineato che le posizioni di entrambe le parti coincidono nella cosa principale: l'eccessiva volatilità è dannosa.
Può sembrare un'osservazione tecnica, ma nel contesto delle attuali turbolenze geopolitiche e finanziarie, tali dichiarazioni assumono un significato particolare. Permettono di capire che il Giappone sarà prudente ma fermo, e che se il dollaro continuerà a esercitare pressioni sullo yen, Tokyo cercherà un modo per mitigare tale impatto.
Citibank, analizzando i negoziati previsti, scrive direttamente: il dollaro potrebbe trovarsi sotto pressione, in quanto il suo sostegno da parte degli USA si indebolirà nei prossimi mesi.
Secondo gli strateghi valutari della banca, gli USA non "perseguiranno aggressivamente" il dollaro debole, ma neanche proteggeranno la sua precedente forza.
Al contrario, dal momento che i partner commerciali cercano concessioni sui dazi da parte di Washington, si potrebbe creare una situazione in cui chiedono anche un apprezzamento delle loro valute come elemento di distensione commerciale.
Ciò è particolarmente vero per il Giappone, che trae beneficio da una dinamica più stabile dei tassi di cambio. Citibank sospetta che dietro le quinte dei negoziati si discuterà non solo di tariffe ma anche di politica monetaria, compreso un possibile ruolo per la Banca del Giappone.
E anche se il vertice del G7 non ha ancora avuto luogo, le aspettative che lo circondano aggiungono carne al fuoco: i traders e gli analisti fanno affidamento sul fatto che sarà difficile per il dollaro mantenere il sostegno in una situazione in cui le maggiori economie del mondo si coordineranno, anche tacitamente, contro le conseguenze della politica americana.
È una sensazione molto forte sullo sfondo dell'atmosfera generale del G7. Secondo uno dei partecipanti alla preparazione del vertice, l'incontro assomiglia a una "lite familiare": prima di parlare della Cina, occorre comprendere le proprie divergenze.
I mercati si stanno preparando a un lungo declino del dollaro
Mentre i ministri delle finanze del G7 si preparano a discutere a porte chiuse degli squilibri valutari e commerciali, i mercati giocano d'anticipo.
E sono già giunti a una conclusione che non richiede una formulazione nel comunicato finale: il dollaro sta perdendo la sua immunità. Le speranze che la valuta statunitense riceva almeno sostegno indiretto durante il vertice si stanno rapidamente dissolvendo, e non perché il G7 si opponga direttamente, ma perché la fiducia nel dollaro si sta sgretolando molto più in fretta delle dichiarazioni diplomatiche.
E tale cambiamento è visibile non nelle parole, ma nei numeri, ovvero negli indici, nelle posizioni e nelle strategie dei maggiori investitori, che sembrano aver iniziato a scommettere se non contro il dollaro, almeno contro la sua eccezionalità.
Occorre ricordare che negli ultimi due giorni l'indice del dollaro ha perso più dell'1%, e ciò è avvenuto in un contesto di crescita del rendimento delle obbligazioni americane. Proprio questa anomalia è diventata oggetto di specifica discussione tra gli strateghi: come può al contempo aumentare il rendimento e calare il dollaro? La risposta, come spesso accade in macroeconomia, non è nei numeri, ma nella fiducia. O nella sua assenza.
Gli analisti di Bloomberg definiscono paradossale la situazione: "Si osserva un'insolita divergenza nel mercato USA, dove l'aumento dei rendimenti obbligazionari a lungo termine è accompagnato da un indebolimento del dollaro". In passato, una situazione del genere sarebbe stata considerata un'opportunità di arbitraggio. Oggi sembra invece il segnale di un cambiamento sistemico: il dollaro perde peso anche quando le metriche fondamentali sono dalla sua parte.
Gli analisti Larry Adam e Tracy Manzi indicano in maniera diretta che a Washington oggi manca la volontà politica di affrontare seriamente il deterioramento delle prospettive finanziarie del paese. E questa non è più solo un'osservazione allarmante, è una minaccia macroeconomica.
Senza un percorso fiscale coerente, con un debito in aumento e una cronica incapacità di prendere decisioni strutturali, gli USA stanno diventando sempre meno prevedibili per il capitale globale. E la prevedibilità è l'elemento su cui si fonda la fiducia in qualsiasi valuta di riserva. La perdita di questo sostegno non è una debolezza teorica, ma, agli occhi degli investitori, un rischio reale di revisione dello status del dollaro.
La loro collega Katie Jones aggiunge un altro tema importante: anche se i conflitti commerciali con la Cina e altri paesi verranno temporaneamente mitigati, rimarrà lo sguardo strutturale ribassista sul dollaro. Il motivo è nel rifiuto USA del proprio precedente ruolo di coordinatore globale.
Washington ora agisce da protezionista, e non nasconde il desiderio di ristrutturare il sistema a proprio piacimento. E anche se i tagli parziali dei dazi hanno portato a un sollievo localizzato nei mercati, il dollaro non ne ha beneficiato, anzi, al contrario. Perché insieme alle tariffe, è scomparsa anche l'ultima illusione di stabilità.
Le statistiche di posizionamento correnti confermano questo trend. Secondo la Commodity Futures Trading Commission, la posizione combinata dei trader sull'indebolimento del dollaro è stimata a 16,5 miliardi di dollari, uno dei livelli più bassi degli ultimi mesi e quasi la metà rispetto all'inizio dell'anno.
A gennaio, il volume delle posizioni long sul dollaro ha raggiunto i 31 miliardi di dollari, e dunque un calo di quasi il 50% significa non solo deflussi di capitale, ma anche una revisione delle aspettative di base.
Tale revisione è evidente non solo nelle statistiche dei contratti future, ma anche nell'umore speculativo generale: i grandi operatori non vedono più il dollaro come una scommessa sicura.
I forti dati occupazionali o l'aumento dei rendimenti non innescano più il precedente stimolo all'acquisto, al contrario, qualsiasi rafforzamento a breve termine viene utilizzato come opportunità per fissare profitti e uscire. Questo comportamento è lo specchio della fiducia del mercato, che ora non mostra panico, ma una graduale e costante delusione.
Tali svolte nel posizionamento non si verificano a causa di uno o due fattori. Sono sempre il risultato dell'accumulo di dubbi sistemici sulla sostenibilità del corso, sulla logica della politica, sulla capacità del paese di gestire il debito e i tassi in modo prevedibile.
E mentre Washington è in stallo sulle decisioni fiscali, il dollaro sta gradualmente perdendo la sua immunità agli shock di mercato. Rimane la valuta più importante del mondo, ma il suo status viene messo sempre più in discussione. I mercati non esigono un collasso, ma chiarezza. È proprio questo che il dollaro ultimamente non è stato in grado di offrire.
Cosa devono fare i traders?
Per i traders, la situazione corrente non richiede movimenti bruschi, ma una rivalutazione a sangue freddo delle strategie. Giocare contro il dollaro non diventa un'idea speculativa, ma parte di un approccio conservatore.
L'euro, lo yen, il franco, tutti stanno ritrovando nuovo slancio proprio a causa della debolezza strutturale del dollaro, non grazie a proprie svolte decisive.
Il rimbalzo a breve termine del dollaro può essere utilizzato per un ingresso puntuale, ma la logica dominante resta quella di vendere sui rialzi. Gli stop vanno posizionati sopra i massimi locali, mentre gli orizzonti temporali sono leggermente più ampi del solito. Perché non si tratta di volatilità, ma di un cambiamento di tendenza. E i mercati sembrano averlo notato.